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Giancarlo Mazzacurati

Giancarlo Mazzacurati
Nacque a Padova il 9 giugno 1936 da Adeodato e Mariarosa Gherardi.

Ebbe anche un fratello, Benedetto, di poco più giovane. Il ramo paterno era originario di Galliera, in provincia di Ferrara, e dagli inizi del '900 avviò un'attività di ingegneria edile che si occupò, soprattutto nel dopoguerra, di importanti opere di ricostruzione, bonifica o interventi nelle zone alluvionate del Polesine.

Il nonno Gherardi fu invece veterinario presso la tenuta reale di San Rossore, in provincia di Pisa. Giancarlo ebbe un debole per questo anarchico toscanaccio, uomo di grande cultura e simpatia.

LA PRIMA FORMAZIONE E GLI STUDI UNIVERSITARI

L'infanzia fu segnata dalle continue trasferte, sia a causa della guerra sia per seguire il padre nel suo lavoro. Tuttavia, anche negli spostamenti, la villa di Barbaricina accanto a San Rossore, dove i suoi genitori si erano conosciuti e dove la famiglia Mazzacurati si riuniva con grande gioia, restò un magico rifugio estivo.

All'inizio della guerra riparò con la famiglia materna in Toscana, a Cascina. Quando la guerra finì frequentò i primi anni di scuola elementare a Pisa, di cui ricordò negli anni soprattutto il tratto che percorreva ogni mattina lungo il tragitto che lo portava a scuola e che lui stesso, osservando le macerie dei Lungarni bombardati, definì «il chilometro della paura». Un segno di questa esperienza, sopravvissuta nella memoria come un fantasma mai del tutto cancellato, si impresse in alcune pagine del romanzo rimasto inedito, «Il brogliaccio» cui Mazzacurati lavorò fino a qualche anno prima della morte. L'ultima redazione porta la data del 1993. «Ebbene, i primi capitoli di quel testo sono dedicati agli anni giovanili, anteriori al tracollo economico della famiglia. Anni che lui dice vissuti nell’Eden, nel Paradiso terrestre. Anche il Paradiso di Giancarlo era un giardino, un parco chiuso da un muro, con al centro una grande villa» (Santagata, 2017, p. 157).

Alla fine delle elementari Mazzacurati si trasferì a Venezia, dove terminò il ciclo di studi e iniziò il ginnasio, che poi completò a Ferrara, al liceo classico Ariosto. Gli anni di Venezia, come pure quelli vissuti a Ferrara, restarono nei ricordi come anni di grande libertà. Mazzacurati era all'epoca un ragazzo sportivo, dedito al calcio, alla boxe e all'atletica. La passione per la letteratura, preceduta da quella viscerale per i fumetti, durata dall'infanzia fino alla morte, si manifestò negli ultimi anni di liceo. Durante questi stessi anni, frequentò i campus estivi di Oxford e Cambridge, dove studiò la lingua inglese e imparò ad amare l'Inghilterra.

Nel luglio del 1954 terminò il liceo e, nel settembre successivo, la famiglia si trasferì a Napoli poiché il padre doveva seguire i lavori sull'autostrada Salerno - Reggio Calabria. Mazzacurati sembrava poco dotato per gli studi ingegneristici, e, su consiglio dello stesso padre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli. Dopo un anno, tuttavia, si fece convalidare un paio di esami già superati e passò alla facoltà di lettere. Nella prefazione alla ristampa della Fine dell'Umanesimo di Giuseppe Toffanin, Mazzacurati evocò il primo incontro con il professore che fu la sua guida iniziale: «nell'autunno tardo del 1954 [...] entrai alle tre e venti del pomeriggio nell'aula dove Toffanin, ligio agli orari e agli obblighi universitari quanto psicologicamente libero e perfino anarchico nell'interpretarli, aveva puntualmente iniziato da venti minuti quella che doveva già essere la quinta lezione del suo corso. Mi apparve subito come se un dio alchimista d'anime si fosse divertito a inoculare, nella forma ideologica e sentimentale di un borghese veneto, nato presso quelli che allora erano i confini degli Asburgo, lo spirito estroverso, affettivamente impulsivo e tumultuosamente umorale di un meridionale  archetipo, dopo averlo predestinato a trascorrere a Napoli oltre quarant'anni della sua lunga e fertile vita» (G. Toffanin, La fine dell'Umanesimo, prefaz. di G. Mazzacurati, Roma 1992, p. XXI).

A Napoli Mazzacurati si laureò nel 1957, discutendo una tesi in letteratura italiana, proprio sotto la guida di Toffanin. Da quel momento iniziò a insegnare lettere presso alcuni licei napoletani e intraprese la carriera universitaria. Nel 1961 Toffanin andò in pensione e scelse come erede Salvatore Battaglia, che già insegnava a Napoli, dal 1938, filologia romanza. Prima di partire ‒ scrisse Mazzacurati ‒ «raccomandò al suo successore, già designato d'altronde, di seguire e raddrizzare un po' le zampe, se poteva, al suo ultimo cucciolo, allora ventiquattrenne e più riottoso che promettente, a dire il vero» (ibid., p. XXIV). Il passaggio da Toffanin a Battaglia segnò anche tra l'altro, per Mazzacurati, il confronto tra una critica fortemente interpretativa e un approccio ai testi prevalentemente filologico e in chiave storica.

LA CARRIERA UNIVERSITARIA E L'ATTIVITÀ DI RICERCA

Agli inizi degli anni '60 l'attività di famiglia subì un grave tracollo. I genitori furono costretti a trasferirsi dapprima a Roma, poi a Padova, ma Mazzacurati decise di restare a Napoli. Lì, dopo aver abitato in via Petrarca, si trasferì in via Posillipo, nella stessa casa in cui aveva vissuto con i suoi genitori, e dove risiedette fino agli inizi degli anni '90.

Sempre al principio del decennio pubblicò il primo importante volume sulla cultura del XVI secolo: La crisi della retorica umanistica nel Cinquecento: Antonio Riccobono (Napoli 1961). L'idea principale del volume riguardò l'allargamento dell'orizzonte della ricerca, spesso chiuso nel problema letterario e formale, al mondo più generale della cultura. Per Mazzacurati, infatti, per intendere la storia di quella crisi, era indispensabile «risalire alquanto il lento sfacelo di una civiltà (quella umanistica) fino all'imporsi di un'altra (quella scientifica e razionalistica), nello sviluppo della quale resta sempre sorprendente il fatto che l'aristotelismo potesse far tanta breccia in letteratura proprio nel momento in cui Galileo stava, nel campo delle scienze, per dargli il benservito» (ibid., p. 15). Questa fu forse la prima traccia di un modo complesso di guardare alle trasformazione del secolo XVI e alle dinamiche culturali che lo attraversavano. Infatti tale impostazione critica segnò in maniera precisa il cammino successivo.

Nel 1964 Mazzacurati divenne assistente ordinario di letteratura italiana e nel 1969 conseguì la libera docenza. Nel 1970, infine, ottenne l'incarico di letteratura italiana presso l'Università di Napoli. Nel frattempo nel 1971 si unì in matrimonio con Marina Pisaturo e, nel dicembre dello stesso anno, ebbe una figlia, Martina.

Nei primi anni Settanta collaborò con la rivista lavoro critico e nel 1976 vinse il concorso per professore ordinario di letteratura italiana e fu chiamato in ruolo presso l'Università «Federico II». Dopo aver scritto numerose dispense sul petrarchismo (1963), su Bembo e sull'Accademia fiorentina (1965), Mazzacurati diede alle stampe un volume capitale intorno alle questioni linguistiche cinquecentesche: Misure del classicismo rinascimentale (Napoli 1966; 2ª ed., ibid. 1990). Il testo rappresentò una prima indagine sistematica sulle molteplici direzioni che la cultura italiana prese nella crisi delle guerre d'Italia. Nella Prefazione alla ristampa del 1990, Mazzacurati ribadì il ruolo che quel testo aveva assunto nel panorama degli studi coevi e indicò esplicitamente i fili che lo legavano alle ricerche di Carlo Dionisotti.

La questione della lingua appariva non riducibile a un fenomeno retorico, ma immetteva sul terreno concreto dei centri culturali e dei loro scenari intellettuali. Le alternative analizzate riguardavano la contrapposizione tra lingua cortigiana, il volgare fiorentino, i modelli di Bembo e l'eclettismo trissiniano. Il concetto di Rinascimento, che emergeva da questo scenario, appariva tutt’altro che omogeneo e uniforme. Si trattava, al contrario, di riconoscere la molteplicità e la specificità delle situazioni reali, sottratte a sintesi semplificatrici e immesse, invece, in una dialettica complicata, che, per essere intesa, aveva bisogno di indagini distinte per tempi e per luoghi, per generazioni e per tipologia di istituzioni.

Proprio da tali premesse storiche e metodologiche nacquero le successive tappe della ricerca di Mazzacurati. Nel 1977 apparve un'opera che sintomaticamente si intitolò Conflitti di culture nel Cinquecento (ibid.), e che, in una prima, parziale edizione, era stata chiamata, con un titolo-manifesto, Piani per una revisione della dialettica culturale del primo Cinquecento (ibid. 1972). Su un impianto sempre più consapevole si fondarono Il rinascimento dei moderni (Bologna 1985; nuova ed., ibid. 2016), e la raccolta di saggi, apparsa postuma, Rinascimenti in transito (Roma 1996): opere per molti aspetti cruciali nella definizione di un nuovo modo di ragionare sul Cinquecento.

LA CARICA INNOVATIVA DELLA CULTURA RINASCIMENTALE E LA GENESI DELLA MODERNITÀ

La ricerca di Mazzacurati, lungo il corso degli anni Ottanta, si era incrociata assai proficuamente con l'esperienza dell'Europa delle Corti. Amedeo Quondam ha scritto che «Mazzacurati seguiva con crescente curiosità queste attività, da fratello maggiore per chi era solo di poco più giovane di lui, autorevole e pensoso punto di riferimento, ironico e solidale, distaccato e coinvolto. Le seguiva anche perché i suoi interessi erano sempre più centrati sulle culture cortigiane e sui loro modelli padani, come attestano tante pagine del Rinascimento dei moderni, quando ragiona del Rinascimento come "produzione storica d'una nuova egemonia" e del cortegiano come "intellettuale nuovo", titolare di un "nuovo ruolo"» (A. Quondam, Trent'anni dopo. Presentazione, in G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni, ed. 2016, cit., p. XV). L’idea monolitica, che poteva ancora coltivarsi intorno al Rinascimento, era sottoposta da Mazzacurati a una radicale revisione, che intendeva «cogliere prima lo sgretolamento di un “rinascimento” astratto, centralizzato intorno a pochi luoghi, pochi oggetti e rapide porzioni di calendario, retorico e spesso declamatorio nel nazionalismo o peggio nel municipalismo dei suoi apologeti» (G. Mazzacurati, Rinascimenti in transito, cit., p. 197).

Proprio la destrutturazione di questo modello serve a tracciare una mappa diversamente orientata, che sia capace di «cogliere poi, subito dopo, tutte le potenzialità di rinnovamento del quadro che venivano dalla pluralità delle forme lette senza più troppi principi gerarchici, nella moltiplicazione concreta e nell'intersecazione complessa dei tragitti» (Il Rinascimento dei moderni, ed. 1985, cit., p. 10). Le conseguenze che derivarono da un modo di lavorare per «geografia e storia» furono immediatamente evidenti. Liberati dai pregiudizi che li oscuravano, i protagonisti dei fatti letterari acquistarono una nuova identità e divennero testimoni essenziali di trasformazioni epocali, che avviarono la lunga stagione del Classicismo. Esemplare, su tutti, il mutamento di giudizio che investì Pietro Bembo: campione di cultura accademica e difensiva, secondo i postulati di una critica tenacemente risorgimentale, egli, recuperato nella forza del suo programma estetico, diventava espressione di una inedita «grammatica del dominio».

Mazzacurati segnalò soprattutto la carica innovativa della cultura rinascimentale, aggiornando l’identikit dei suoi protagonisti sui bisogni di un ciclo storico appena inaugurato. Cancellando perfino la traccia delle origini comunali, essa non faceva altro che aderire, con compiuta autocoscienza, alla «maestà dei tempi» cui apparteneva e da cui era nata. In modi diversi, Castiglione e Bembo, Il Cortegiano e le Prose della volgar lingua celebrarono, congiuntamente, «l’apologia del presente» (come Mazzacurati aveva intitolato il saggio su Castiglione nelle Misure del classicismo) e delinearono un moderno uomo di lettere, nato dalle ceneri delle culture municipali. Ciò che registrava era, appunto, la nascita di un diverso modello di letterato e di intellettuale: «una nuova organizzazione del sapere, una nuova implicita definizione di potere fende alla radice l'unità verticale della scienza, i suoi terreni comuni di fondazione, le scale gerarchiche delle arti, il dominio di sapienza propedeutiche e finali» (G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni, ed. 1985, cit., p. 246). Proprio in questo senso la storia del Rinascimento s’intrecciava con la genesi stessa della modernità e con il policentrismo dei suoi linguaggi.

CRISI DEL ROMANZO E ROMANZO DELLA CRISI: NUOVI SVILUPPI CRITICI

Nel 1974 apparve Forma & ideologia: una raccolta di saggi su Dante, Boccaccio, Straparola, Manzoni, Verga, Svevo. Fino a quell'epoca Mazzacurati era stato soprattutto uno studioso della cultura del XVI secolo. Una nuova pista di ricerca sembrò ora annunciarsi. Tra i contributi presenti in Forma & ideologia, spiccano, infatti, tre saggi su Una vita di Svevo. Sono questi i primi segnali di un cambiamento di rotta, che portò verso una stagione di indagini inedite. Come aveva fatto nei suoi studi rinascimentali, Mazzacurati scelse di studiare un altro momento di crisi, spostato questa volta alla fine del XIX secolo. L'attenzione si fermò su un genere come il romanzo, che mostrava i segni di un cambiamento vistoso rispetto ai paradigmi precedenti. Ancora una volta Mazzacurati osservava un mondo e una cultura in trasformazione radicale.

Le microanalisi del primo romanzo di Svevo si appoggiavano soprattutto sulle idee di un critico in quegli anni ancora quasi del tutto assente dal panorama italiano. Si trattava di Paul De Man (1919-83), il cui libro, Cecità e visione, apparve in traduzione nel 1975 presso l'editore Liguori, nella collana «Le forme del significato», diretta da Mazzacurati insieme con Antonio Palermo e Vittorio Russo. In appendice al volume Mazzacurati aggiunse il saggio La retorica della temporalità, che lui stesso aveva tradotto. La presenza di De Man non implicava, tuttavia, l'adesione a un modello ermeneutico dominante. Nessun autore diventò un dogma alle cui regole sottomettersi. Come ha scritto Mario Lavagetto, «qualsiasi tentativo di ricondurre il lavoro di Mazzacurati all'interno di una scuola sarebbe fatica sprecata; si possono riconoscere certo delle influenze e tuttavia la sua resta un'impresa sostanzialmente individuale e che prevede tutte le volte ‒ a ogni ripresa, a ogni inizio, scrivendo la prima parola del saggio ‒  di procedere come se si ripartisse, in modo programmatico, da zero. Non c'è allora da sorprendersi per l'impossibilità di fissare e definire un metodo che valga una volta per tutte: Mazzacurati rifuggiva da qualsiasi irrigidimento tattico, preferiva una strategia flessibile e condizionata, volta per volta, dalla natura, dagli accidenti, dalle difficoltà del terreno su cui si trovava a muoversi» (M. Lavagetto, Sulle tracce di YorickIntroduzione a G. Mazzacurati, Il fantasma di Yorick, Napoli 2006, p. X). Le analisi sveviane si ampliarono nel 1977 con l'intervento Il lavoro delle figure e la profezia di Svevo e con il saggio del 1982 Dentro il silenzio di Svevo; crisi, morte e metamorfosi della letteratura. Intanto, nel 1979 e nel 1981 Mazzacurati scrisse due ampi saggi su Robert Musil, che costituirono una prima sistemazione delle tipologie del romanzo novecentesco. Erano i segni di un interesse che diventò sempre più esteso e che trovò un importante punto d'arrivo nel volume Pirandello nel romanzo europeo (Bologna 1987; nuova ed., ibid. 1995). A questo risultato seguì il volume collettivo da lui diretto Effetto SterneLa narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello (Pisa 1990).

Dalla metà degli anni '80 Mazzacurati assunse una serie di incarichi come professore invitato di letteratura italiana, sia in Francia (Aix-en-Provence, Paris III, Caen, Besançon) sia negli Stati Uniti (Johns Hopkins University di Baltimora - MD). In Francia restò a Parigi nel 1984. A seguire diede corsi a Caen, a Besançon e di nuovo a Parigi fino al 1990. In America insegnò nel 1986 e poi nell'anno accademico 1987-88.

L'entusiasmo per la Francia, per Parigi in particolare, spinse Mazzacurati ad affittare un appartamento in cui soggiornare nei semestri di insegnamento, facendo su e giù con Napoli dove continuò a tenere i suoi corsi. Furono anni di treni notturni, spesso anche con una sosta a Padova per andare a trovare i suoi genitori. Furono ancora anni di amore per una vita itinerante, allietata da lunghe passeggiate parigine e dalla frequentazione degli ambienti universitari francesi. Questo sodalizio trovò il suo compimento nell'introduzione al prestigioso volume della Plèiade, Conteurs italiens de la Renaissance (Paris 1993). Napoli, tuttavia, restò ancora il centro esistenziale di riferimento. Introducendo nel 1987 un volume di Vittorio Russo, con il quale aveva condiviso molte esperienze umane e politiche, scrisse: «La città, poi, quando la lasciamo un po' sola per andare a brulicare altrove, in certe domeniche d'estate ha ancora, qua e là, una sua nobiltà malinconica; e gli occhi che possono rialzarsi sopra la corrida quotidiana  tornano a vedere, tra la rovina dell'incuria e gli orrori delle speculazioni, scorci che sembravano inventati dai coloristi ingenui del secolo scorso» (G. Mazzacurati, Prefazione a V. Russo, L'altro scrittoio, Napoli 1987, p. 8).

L'ADDIO A NAPOLI E UNA DIVERSA MANIERA DI FAR CRITICA

Il piacere di frequentare biblioteche francesi e americane permise di dare corpo a nuove esperienze di lavoro. Mazzacurati tradusse "La spedizione di Humphry Clinker" di Tobias G. Smollett (Torino 1987) e Un viaggio sentimentale di Laurence Sterne (I-II, Napoli 1991): in calce alla Postfazione, che conclude il secondo volume, annotò: «Lo stato in cui versa l'informazione bibliografica (non parliamo della collocazione e della pubblica utilizzazione dei libri, specie recenti) è tale, da noi, che le note, la bibliografia e in genere questo, sia pur marginale, contributo critico, sarebbero state parti del libro ancor più abborracciate di quanto forse non siano ora, se non avessi potuto usufruire, per qualche tempo, della Milton S. Eisenhower Library e della Library of Congress di Washington, grazie a un soggiorno come visiting professor presso il Department of Hispanic and Italian Studies della Johns Hopkins University di Baltimora» (L. Sterne, Un viaggio sentimentale, II, p. 291). Accanto alle traduzioni l'interesse e la pratica dei commenti occuparono uno spazio sempre maggiore. Oltre all'esegesi che accompagnò la traduzione di Sterne, bisogna ricordare – tutti pubblicati per Einaudi – il commento e l'edizione di Mastro-don Gesualdo (Torino 1992) e, infine, i commenti ai romanzi pirandelliani: Il fu Mattia Pascal (ibid. 1993), Uno nessuno e centomila (ibid. 1994) e L'esclusa (ibid. 1995). Questa esperienza fu un aspetto diverso di fare critica. L'atto di commentare implicava per lui «togliere gli involucri, sollevare i veli che occultano le fasi di creazione del prodotto finito, mostrare le diverse strategie e perfino la fatica della macchina narrativa, discutere la formazione e la trasformazione della superficie testuale, legare gli organi alti dell'interpretazione ai vasi capillari che si diramano nel tessuto» (G. Mazzacurati, Premessa a G. Verga, Mastro-don Gesualdo, cit., pp. VI s.).

Con il tempo Mazzacurati maturò qualche insofferenza per un certo ambiente universitario e questo stato d'animo, unito alla volontà di avvicinarsi ai genitori, lo portò ad allontanarsi da Napoli. Dal 1991 accettò il trasferimento sulla cattedra di letteratura italiana alla facoltà di Lingue di Pisa. Si chiuse così la storia d'amore con Napoli, con la «Federico II» e con la sua casa, riempita in quasi trentacinque anni di circa ventunomila volumi e quintali di carte, lettere, fogli sparsi, ricordi e oggetti. Una materia che non riprese più forma nella nuova casa di Pisa, in via Cristoforo Colombo 20.

Fino agli ultimi giorni Mazzacurati parlava di sé come del côté comico della sua generazione, richiamando l’idea di umorismo come leggerezza sterniana, elevata a paradigma dell'esistenza.

Morì a Pisa il 2 agosto del 1995.


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Copertina di Il fu Mattia Pascal

Il fu Mattia Pascal

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Anno: 1984