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Silvio Enea Piccolomini

Silvio Enea  Piccolomini

Nel panorama storiografico del Quattrocento, Enea Silvio Piccolomini è importante in primis perché, come agente politico, fu testimone di molteplici eventi di portata internazionale, dei quali egli rese conto nella sua vasta produzione storica e memorialistica. Le sue opere furono, inoltre, caratterizzate dal suo vivace ingegno, dalla sua naturale curiosità, dai suoi molti interessi, dalla sua spregiudicatezza e dalla sua grande capacità ritrattistica. Piccolomini fu innovativo anche nel modo di combinare geografia, descrizione etnografica e storia: non a caso con la sua Germania pose le fondamenta del patriottismo tedesco. Tuttavia, non sempre il suo senso critico appare saldo.

La vita

Enea Silvio Piccolomini nacque a Corsignano, vicino a Siena, il 18 ottobre 1405. Crebbe in un ambiente rustico e modesto, visto che la sua famiglia, appartenente al partito nobiliare, era stata espulsa da Siena nel 1385. Nel 1423 si recò a Siena per studiare diritto e lettere classiche. Uno dei suoi professori di diritto fu Mariano Sozzini, con cui strinse anche amicizia. Nel 1429 si spostò a Firenze, dove seguì le lezioni di Francesco Filelfo e dove rimase per due anni.

Nel 1432 diventò segretario del cardinale Domenico Capranica, che accompagnò al Concilio di Basilea. La sua carriera successiva fu rapida e movimentata: per ragioni politiche o economiche fu spesso costretto a cambiare datore di lavoro. Al servizio del cardinale Niccolò Albergati, nel 1435, venne inviato in missione diplomatica in Scozia. Dal 1436 ricoprì alcuni incarichi ufficiali in seno al concilio (come scrittore e membro di vari comitati), divenendo famoso per le sue orazioni. Nel 1439 fu nominato segretario di Felice V, l’antipapa eletto dal concilio, e lo rimase per tre anni.

Alla fine del 1442 lasciò il servizio presso Felice V per un nuovo incarico presso la cancelleria del re di Germania, Federico III, a Wiener Neustadt. Per conto del sovrano svolse alcune importanti missioni diplomatiche: nel 1445, a Roma, ottenne un riavvicinamento tra papa Eugenio IV e Federico III. Nella medesima occasione Piccolomini si riconciliò personalmente con il pontefice, ammettendo nel corso di un’udienza i suoi precedenti errori (ossia la sua posizione conciliarista e il fatto di essere stato al servizio di Felice V) e riconfermando la sua piena adesione alla Sede apostolica.

 

A seguito di ciò la sua carriera ecclesiastica ebbe un nuovo impulso: ordinato suddiacono nel 1445, fu consacrato sacerdote nel 1447 e nello stesso anno ricevette la nomina a vescovo di Trieste. Nel 1450 fu trasferito alla sede vescovile di Siena.

Piccolomini, però, continuò a lavorare in Austria per la cancelleria di Federico III, tanto da seguire la delicata preparazione della sua incoronazione a imperatore, avvenuta a Roma nel 1452. Alle diete imperiali tenutesi in quegli anni a Ratisbona, Francoforte e Wiener Neustadt, egli promosse, ma senza successo, una crociata contro i turchi che nel 1453 avevano preso Costantinopoli.

Nel 1455 lasciò definitivamente l’impero per tornare in Italia e nel 1456 fu creato cardinale da papa Callisto III. Solo due anni dopo, nel 1458, venne eletto papa con il nome di Pio II e, nella sua nuova dignità, si allontanò completamente dalla sua originaria posizione conciliarista, divenendo uno strenuo difensore della monarchia papale. Nel 1460 emanò la bolla Execrabilis, con la quale condannò ogni appello al concilio contro le decisioni pontificie. Tra i suoi compiti più urgenti vi fu quello di organizzare una crociata contro i turchi, per la preparazione della quale riunì a Mantova, nel 1459, un congresso dei principi cristiani. Tale iniziativa ebbe però poco successo: il papa non riuscì infatti a convincere le potenze europee della necessità della crociata. Essa rimase così un progetto centrale, ma sostanzialmente fallito, del suo papato. Il 14 agosto 1464 Piccolomini, gravemente malato, morì ad Ancona mentre aspettava la partenza della flotta veneziana contro i turchi.

Le implicazioni della storia contemporanea: il Concilio di Basilea

«È una sorte avversa dalla quale io sono afflitto, che io non sappia sottrarmi alla storia e impiegare in modo più utile il mio tempo» (De gestis Concilii Basiliensis commentariorum libri II, ed. D. Hay, W.K. Smith, 19922praefatio, p. 2). La sorte avversa (ma è una fortuna per noi) della quale si doleva il giovane Piccolomini è non sapersi sottrarre dallo scrivere la storia dei tempi in cui egli stesso viveva e di cui si faceva «specchio»: come ha osservato correttamente Jacob Burckhardt,

ben pochi sono gli altri, nei quali l’immagine di quel tempo e della sua cultura spirituale si trovi così viva ed intera, e […] assai pochi altresì s’accostarono, al pari di lui, al tipo normale dell’uomo del primo Rinascimento (Die Cultur der Renaissance in Italien, 1860, 18692, p. 237; trad. it. 1968, p. 275).

Gli scritti di Piccolomini riflettono non solo gli eventi da lui vissuti, ma anche il suo percorso intellettuale: da studente, impegnato nello studio del diritto e nella lettura dei classici, a segretario di cardinali e principi, da pensatore antipapale a papa.

Negli studi critici non è mai stato facile trovare una spiegazione esaustiva del capovolgimento dell’atteggiamento politico e personale di Piccolomini. Prima di interpretarlo, seguiamo questo percorso guardando il caso concreto di due scritti di storia: le due versioni della sua storia del Concilio di Basilea.

La prima versione, il De gestis concilii Basiliensis commentariorum libri II, fu scritta negli anni 1439-1440. Nel primo libro, che inizia con la dieta di Norimberga del luglio 1438, Piccolomini presenta in tono apologetico il processo contro papa Eugenio IV e difende le scelte, le posizioni e la vittoria della maggioranza conciliare, che arrivò alla decisione di deporre il papa. Il secondo libro, meno lungo e meno concitato nella narrazione, racconta l’elezione del papa del concilio, Felice V.

Come mai egli scelse di non descrivere i primi otto anni del concilio che, ricordiamo, iniziò nel 1431? La scelta non deriva, come rivendicato da Piccolomini, dalla sostanziale inattività del concilio durante i suoi primi anni (egli afferma: «non ho potuto scrivere nulla, poiché nulla si era fatto», De gestis, cit., p. 6). Piuttosto è da pensare che Piccolomini si sia concentrato su quegli eventi che avevano messo in dubbio l’autorevolezza e la credibilità del concilio stesso, scrivendone una difesa molto mirata. Egli si sofferma a lungo sull’idea che il concilio avesse autorità anche sul pontefice romano (cfr., per es., p. 34: «è evidente, come abbiamo detto, che il papa è sottoposto al concilio»). Il secondo libro presenta le discussioni che avevano preceduto l’elezione di Felice V e ne descrive anche molto dettagliatamente il conclave. Così facendo Piccolomini rendeva noti tutti i fatti che, altrimenti, potevano sembrare opachi a chi non vi avesse assistito (cfr. p. 240). L’immagine data dei padri del concilio è quella di uomini onesti e senza ambizioni personali, pronti a sacrificarsi per la fede e il bene della Chiesa, proprio come i primi martiri cristiani (p. 128; cfr. O’Brien 2008, p. 70). Papa Eugenio invece è descritto, in un’orazione del cardinale Louis Aleman che Piccolomini riporta in esteso, come «devastatore della Chiesa» (De gestis, cit., p. 122).

Alla metà degli anni Quaranta del Quattrocento Piccolomini compì la sua famosa svolta, schierandosi al fianco di Eugenio IV, diventando vescovo e poi, nel 1458, lui stesso papa. I suoi primi scritti divennero allora per lui motivo di imbarazzo. È quindi verosimile che distruggesse la copia autografa del suo De gestis (come presumono, a p. XXX della loro introduzione al De gestis, cit., Denys Hay e Wilfrid Kirk Smith). Copie manoscritte delle sue opere erano però già molto diffuse. Se ne rese conto pubblicamente nella sua bolla di ritrattazione, In minoribus agentes, del 1463 (bolla che comunque rappresenta, in tarda retrospettiva, una conferma formale della sua svolta compiuta negli anni Quaranta):

Le parole scritte e appena pronunciate volano via senza che si possano più richiamare. I miei scritti non sono più in mio potere, che ormai sono giunti nelle mani di molti e sono letti ovunque (in Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum […], 5° vol., a cura di F. Gaude, 1860, p. 173; per la prima frase cfr. Orazio, Epistulae 1, 18, 71).

Negli anni 1450-51 Piccolomini rimaneggiò in modo radicale la sua storia del concilio. Spiega così in una lettera:

è opportuno che nel trattato sul Concilio di Basilea io cambi molte cose, in quanto esso non ha avuto quell’esito che io pensavo; per questo motivo, è pericoloso scrivere la storia di ciò che è ancora in corso di svolgimento, mentre degli eventi passati si può scrivere senza pericolo (lettera al cardinale Juan Carvajal, 9 febbraio 1450, in Der Briefwechsel, hrsg. R. Wolkan, 2° vol., 1912, p. 100).

Il risultato fu un nuovo trattato, De rebus Basileae vel stante vel dissoluto concilio gestis commentariolum, mandato e dedicato allo stesso Carvajal (in Der Briefwechsel, cit., 2° vol., pp. 164-228). Piccolomini, che nel 1450 fu nominato vescovo di Siena, aveva intenzione di nascondere il più possibile il proprio passato conciliarista. Per questo eliminò qualunque riferimento alle posizioni prestigiose che lui stesso aveva tenuto a Basilea. Allo stesso tempo cercò di proteggere il papato dalle minacce che il concilio gli aveva posto, giustificando l’autorità del papa nella Chiesa. Già in queste due prime opere storiche, quindi, fondeva storia e apologia, fini storiografici e aspirazioni personali legate alla sua carriera ecclesiastica.


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