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Paolo Viola
L’11 novembre, a soli 57 anni, è morto a Palermo Paolo Viola. Era nato nel 1948 e aveva studiato a Pisa, alla Scuola Normale, discutendo nel 1971 una tesi di laurea lungamente preparata a Parigi con Albert Soboul. Dopo tre anni trascorsi all’Università della Calabria, dal 1981 era stato professore alla Scuola Normale di Pisa e dal 1991 insegnava Storia moderna nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo, della quale era stato anche preside.
Viola è stato uno dei pochi storici italiani ad essersi cimentato con risultati di assoluta originalità con un grande tema come quello della rivoluzione francese. L’ha fatto grazie a una vastissima cultura e a un’intelligenza acuminata, ma non soltanto per questo. Il trono vuoto (Einaudi, Torino 1989) esce proprio nel bicentenario ma sfugge brillantemente alla dicotomia revisionismo-antirevisionismo, che in quell’occasione torna a riproporsi. La sua lettura del processo rivoluzionario come trasferimento della sovranità dal monarca alla nazione è infatti un tentativo tanto coraggioso, quanto riuscito di rinnovarne le categorie interpretative unendo politica, società, cultura e passando la tradizione storiografica al vaglio di una critica che privilegia la rivoluzione nel suo farsi.
Come quasi tutti gli storici della nostra generazione, sin dagli anni universitari Viola aveva fuso il suo interesse per la storia con quello per la politica. Nel suo lavoro la forza di quel rapporto tra passato e presente non si è mai allentata perché Paolo ha saputo interpretarlo in modo esemplare. Quando dà alle stampe Il crollo dell’antico regime (Donzelli, Roma 1993), nel quale pone al centro dell’attenzione la società civile, una «periferia» che insorge contro la politica in nome della giustizia e della sovranità, non nasconde di essere influenzato dai «crolli improvvisi dei sistemi di governabilità a cui assistiamo», ma può considerarlo normale perché oppone «professionalità, e rispetto per le fonti alle facili analogie che attirano l’attenzione verso la contemporaneità».
Lo stesso rapporto passato-presente si ritrova in È legale perché lo voglio io. Attualità della rivoluzione francese (Laterza, Roma-Bari 1994) e in tutti gli altri suoi scritti, fino agli articoli che di tanto in tanto pubblicava su «La Repubblica». Non so se Paolo si sarebbe riconosciuto in ciò che sto per dire, ma ho avuto l’impressione che fino a L’Europa moderna. Storia di un’identità (Einaudi, Torino 2004) la sua riflessione assumesse il passaggio dall’antico regime alla rivoluzione come una sorta di evento inaugurale e che qui avessero origine sia i suoi interessi per la storia dell’età contemporanea, sia anche la sua partecipazione alla Sissco.
Penso alla densa relazione che svolse al nostro convegno del 1998 (Le rivoluzioni francesi e la mobilitazione nazionale, in Rivoluzioni. Una discussione di fine Novecento, a cura di D.L. Caglioti ed E. Francia, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, Roma 2001, pp. 31-40; < https://www.sissco.it/articoli/rivoluzioni-1087/le-rivoluzioni-francesi-e-la-mobilitazione-nazionale-1091/ >). Penso anche alla sua riflessione sul concetto di regime, applicata tra l’altro alla storia dell’associazionismo a Corleone, cui nel 2004, assieme a Titti Morello, aveva dedicato un cd-rom per l’Istituto Gramsci siciliano, dove dirigeva un importante archivio. E ancora penso alla ricerca che – a trent’anni di distanza dal suo primo libro su Il Terrore (Sansoni, Firenze 1975) – aveva avviato su terrore e terrorismo nell’età contemporanea. Il 31 maggio scorso ne aveva illustrate a Siena le linee conduttrici in un seminario su Il terrorismo e la legittimazione odiosa dalla rivoluzione in avanti, animando una discussione serrata come raramente accade di farne nell’università italiana.
Né, infine, mi sembra casuale che della Storia e moderna e contemporanea, pubblicata in collaborazione con Adriano Prosperi (Einaudi, Torino 2000), abbia scritto lui i volumi su L’Ottocento e Il Novecento, anche se sosteneva di essercisi trovato quasi per caso. Il taglio problematico e una scrittura fresca e avvincente ne fanno un’opera di sintesi di grande pregio e – assieme alla Introduzione agli studi di storia scritta con Pietro Corrao (Donzelli, Roma 2002) – rivelano anche a chi non lo conoscesse ciò che per certo sanno i suoi studenti: che Paolo Viola non è stato soltanto uno storico di grande acutezza, ma anche un insegnante di uguale valore. Negli ultimi anni era stato, tra l’altro, uno dei promotori di un corso di laurea interfacoltà in Scienze storiche.
Molto altro ci sarebbe ancora da dire per rendere conto della sua personalità di studioso, dai rapporti internazionali che aveva coltivato, oltre che con la storiografia francese, in particolare con quella americana, alle sue curiosità interdisciplinari. Segnalo soltanto, perché probabilmente è poco conosciuto, un suo contributo sulle fonti letterarie al convegno Identité péripherique et intégration nationale, tenutosi a Rennes nel 2002: Mastro-Don Gesualdo e il problema della politicizzazione della Sicilia, «Annales de Bretagne et des Pays de l’Ouest», 2004, n.4.
Il suo ultimo libro, L’Europa moderna, richiederebbe un discorso a parte, se non altro per la proposta di ridefinire la modernità europea come l’epoca della conquista del pianeta da parte del vecchio continente e di collocarne l’epilogo nell’«incredibile suicidio» della Grande Guerra. Paolo vi ha profuso la stessa lucidità e lo stesso coraggio con cui ha combattuto la sua malattia, senza mai perdere la passione che metteva in ciò che faceva. La sua morte priva la Sissco di un socio autorevole, la storiografia italiana di uno studioso di rara intelligenza. Io, che lo conoscevo soltanto da pochi anni, perdo una nuova amicizia, cresciuta intensamente ma troppo poco vissuta. Ne conserverò il rimpianto, assieme a un suo regalo prezioso: un’edizione italiana di Il genio delle religioni di Quinet (Tip. Giachetti, Prato 1868), ribattezzata nella costola da un rilegatore come Il genio delle rivoluzioni.
Tommaso Detti